FESTA DI SAN GIUSEPPE LAVORATORE E CUSTODE DELLA FAMIGLIA

Quale spiritualità del lavoro?

Collegno (TO), 18 settembre 2021

Perché oggi rivolgerci a san Giuseppe lavoratore? Forse perché di questi tempi ci mancano i padri? San Giuseppe è un esempio di padre di cui non conosciamo quasi la storia, ma di cui sappiamo gli atti, le azioni. Di san Giuseppe lavoratore abbiamo segno delle decisioni prese rispetto ai sogni, di quello sguardo che riesce a trasformare la sua esperienza, di amare e scoprire che il lavoro che viene assegnato è proprio, non di altri.

Giuseppe affronta una grande sfida quando gli viene detto: “Non temere, Giuseppe, figlio di Davide, di prendere Maria come tua sposa”, perché lui si fida di Maria, ma ha paura dell’appellativo (figlio di Davide) con il quale è stato chiamato, come fosse il Messia. Credere a Maria significava adempiere alle promesse e prendere sul serio e responsabilità quello che si è (figlio di Davide).

Il lavoro di Giuseppe sarà dunque quello del prendersi cura e i suoi atti parlano di come lui abbia lavorato con questo obiettivo, anche quando il lavoro è stato faticoso e stancante. Perché il lavoro stanca e bisogna trovare le motivazioni ogni giorno per dedicarvi energie.

La qualità del lavoro si scopre sin dal RISVEGLIO e può essere entusiasmante, ma anche insopportabile. Solo quando si scopre, come ha fatto Giuseppe, che il proprio lavoro è di creazione, che si può fare la differenza dove si agisce, allora quella consapevolezza renderà il risveglio entusiasmante. Se colto così, anche se faticoso, allora il lavoro può essere affrontato. È il carattere alienante del lavoro a rendere il risveglio insopportabile.

Il Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa n.255 esorta a prendersi cura del creato, della creazione: è faticoso ma è vincente e ci colloca dentro al disegno di Dio. C’è un passaggio etico, di senso, di comprensione, da fatica a lavoro: il lavoro è un mezzo, non un fine. Se ci si allontana dal disegno di Dio, anche il lavoro perde di significato e la fatica non avrà avuto un senso.

La MATTINA è il momento della responsabilità verso noi e verso gli altri. Come ci insegna Giuseppe, questo è il momento della responsabilità di rispondere ad un appello che proviene da un altro. Al mattino esprimiamo la responsabilità verso un lavoro che dovremmo amare in quanto esperienza umana: vuol dire che dietro al lavoro c’è una persona che imprime un carattere personale, individuale del lavoro: nessuno è una macchina, dietro ci sono passioni, sofferenze, sentimenti, anche l’ansia di non essere in grado di rispondere alle istanze del risveglio.

Il lavoro è necessario, non se ne può fare a meno: quando non c’è ci si sente derubati. È proprio qui la responsabilità del nostro tempo: se il lavoro è necessario, bisogna allora che sia garantito.

Il POMERIGGIO è il momento della stanchezza in cui crollano tutte le difese: benedetta stanchezza perché è lì che si incontra l’altro e ci si emoziona un po’ dell’altro. La stanchezza richiama alla solidarietà, ci si mostra per quello che si è, per gli atti e non per le parole che si dicono. Nella stanchezza si scopre ciò che è necessario, si coglie l’essenziale, la bellezza e la verità. La bellezza di un lavoro fatto per e con gli altri, la scoperta di come il lavoro ci mette in dialogo con gli altri.

La SERA è il tempo libero dopo che si è vissuto da protagonista il risveglio, una mattinata di responsabilità e il pomeriggio di quella fragilità utile a cogliere il senso del lavoro. La sera è il tempo desiderato in cui finalmente possiamo goderci il senso di libertà, come facciamo nel giorno festivo.

La NOTTE richiama alla spiritualità: nel buio si vede sempre oltre. La spiritualità del lavoro ci porta a reagire agli stimoli che otteniamo da fuori, a partire dal cuore, dalla coscienza, a partire dalla relazione con Cristo. Allora sì che la spiritualità del lavoro può dare senso e significato al lavoro stesso per farcelo amare, per farlo diventare il lavoro che cambia il creato. È necessaria la costanza che Giuseppe ha messo nel suo agire e, come lui è figlio di Davide, ricordarci che anche noi siamo figli di re.

padre Antonio Teodoro Lucente
Presidente Fondazione ENGIM